Alberto Fortis si racconta ai microfoni di Slash Radio Web in un’intervista che è un attraversamento emozionale e lucido di una carriera lunga e coraggiosa, fatta di musica, poesia e inesauribile desiderio di evoluzione. Durante l’incontro, Fortis condivide aneddoti personali e momenti indimenticabili del suo percorso professionale, alternando memoria e presente con la naturalezza di chi ha sempre vissuto la musica come forma di verità. Dai primi esordi alla maturità creativa dell’ultimo album, ogni parola è portatrice di una sincerità, diretta, concreta, necessaria. Per lui la scrittura è ancora oggi il luogo della sperimentazione, il laboratorio alchemico della visione e del suono, il territorio in cui praticare la libertà espressiva. E come sempre, nei suoi racconti, il confine tra musica e vita si dissolve, lasciando emergere il gesto artistico nella sua autenticità più profonda. Il nuovo album, composto da otto tracce, ognuna delle quali è accompagnata da un video d’autore, è un prodotto intenso, pieno di energia, la stessa delle origini, che ancora oggi, a 70 anni appena compiuti, lo spinge a scrivere, suonare, creare un processo in cui l’emozione si rinnova senza discontinuità temporale anche nei concerti dal vivo. Un lavoro visivo e musicale che Fortis cura nel dettaglio, mettendo in scena, oltre alla scrittura della canzone, il suo secondo grande amore: la fotografia e il linguaggio dell’immagine, da sempre al centro della sua Intuizione estetica. I video realizzati sono tutti una piccola opera, estensione poetica della musica, come nel brano Shopping con Alanis, ironico e surreale, intimo e teatrale, sospeso tra ritmo e riflessione fantastica sulla realtà contemporanea che ha superato l’irreale. Per Alberto Fortis creare significa costruire un insieme coerente in cui note, gesti, immagini e parole trasmettono contenuti ritenuti essenziali alla vita individuale e collettiva e all’elevazione spirituale degli esseri umani. Questa consapevolezza è segnata da un costante impegno sociale profuso come ambasciatore di diverse organizzazioni non profit, tra cui i City Angels, associazione milanese che fornisce sostegno concreto alle persone senza dimora. La sua è una presenza attiva, orientata alla relazione diretta e al supporto quotidiano. Da ricordare la recente collaborazione con Michelangelo Pistoletto e Cittadellarte, che introduce un ulteriore ambito d’azione, la promozione della Pace Preventiva, declinata in forma progettuale e operativa. In questo contesto si intrecciano grammatiche visive e pratiche sociali. La conversazione in diretta su Slash Radio Web evidenzia una continuità mai interrotta tra espressione e comportamento. Le sue affermazioni coincidono con le sue scelte operative. Ogni elemento risulta funzionale a una linea di condotta basata sulla partecipazione e sulla responsabilità. Un’intervista intensa, appassionata e viva, che restituisce la voce di un artista che non ha mai smesso di guardare il mondo con stupore e di restituirlo nelle forme intrecciate di più linguaggi poetici.
Azelio Corni. Al riparo dal cielo “Al riparo dal Cielo” è una raccolta di lavori iniziati nel 2004 in cui ricorre la forma della volta, che richiama il concetto di casa e di focolare. Azelio Corni affronta questo tema con uno sguardo quasi primitivo, in sintonia con il suo profondo interesse per ogni sfaccettatura del mondo arcaico. Decifrare l’universo primitivo non è semplice: spesso lo si approccia con una rigidità mentale fatta di schemi ideologici freddi e preconfezionati, che bloccano invece di liberare. Al contrario, nelle opere di Corni, i simboli e le intuizioni sprigionano un’energia incandescente e magmatica.
Le sue imponenti strutture architettoniche racchiudono il senso primario della vita e della morte. Il nero, scelto come unico colore, si trasforma in un’emozione pura, capace di condurre verso l’infinito.
Tema centrale dell’intera produzione di Azelio Corni è il dialogo Uomo – Natura. Una Natura interpretata come spazio di libertà e strumento di elevazione dell’Uomo, che si traduce in interpretazione architettonica delle forme. La rappresentazione della Natura diventa lo specchio attraverso cui l’essere umano riflette le sue passioni, la sua visione del mondo e il senso stesso della sua esistenza. Una sorta di “Paesaggio – Stato d’animo” contemporaneo, che riassume con chiarezza l’essenza di un itinerario dalle infinite diramazioni. Un viaggio, quello attraverso le opere monumentali di Corni, che tratteggia non solo il volto della Natura, ma anche quello dell’Anima, perché la meta è sempre il cuore dell’uomo che oscilla costantemente tra i poli di Ragione e Tragedia, pilastri fondanti della nostra civiltà.
Azelio Corni ha creato le sue opere per guidare l’anima oltre la dimensione terrena, in un orizzonte trascendente e segreto.
Le opere esposte sono visioni mastodontiche, definite da una pittura minimale e potentissima. Sono forme che sembrano emergere da antichi strati della coscienza collettiva, cariche di simbolismo e tensione. I volumi, quasi architettonici – Corni era particolarmente legato all’architettura e l’amava -, racchiudono lo spirito umano, come gusci sacri. Non c’è decorazione: solo materia, forma, e la ricerca costante dell’anima. «L’arte di papà è tribale, ma non arcaica; contemporanea, ma mai fredda. Si colloca in quello spazio sospeso in cui l’essere umano si confronta con i grandi interrogativi dell’esistenza, tra la razionalità̀ e il caos, la struttura e l’abbandono». L’allestimento è suggestivo e sembra fatto apposta per la prima scuderia del castello vigevanese, i canti mongoli gutturali di sottofondo rendono il tutto carico di pathos incutendo quasi una religiosità̀ dell’arte.
Articolo di Caterina Corni
Breve bio dell’artista
Originario di Sesto Calende (VA), Azelio Corni (1948 – 2023) ha conseguito la laurea in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Ha insegnato Comunicazione Visiva all’Accademia A.C.M.E. di Novara (NO) e Discipline Pittoriche presso il Liceo Artistico di Busto Arsizio (VA). Ha operato nel campo delle arti visive, partecipando a numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero (Stati Uniti, India, Giappone, Kingdom of Bahrain). Le sue opere sono state acquisite da istituzioni pubbliche e private e da Istituti di credito, tra cui UBI Banca.
Azelio Corni. Al riparo dal Cielo Vigevano, Prima Scuderia del Castello Inaugurazione: giovedì 17 aprile Apertura: 18 aprile – 18 maggio 2025 Orari: venerdì, sabato e festivi: dalle 10 alle 19 da martedì a giovedì: dalle 15 alle 18
Per informazioni e visite guidate per gruppi o scuole contattare: 331 8887605
Li Fangyuan. Fiori di Cotone Rosso: un Ponte tra Tradizione e Modernità Fortunato D’Amico
La magia del futuro nei paesaggi culturali della Cina
Li Fangyuan, nato nel 1930 nel quartiere di Dinghu della città di Zhaoqing, nella regione del Guangdong, è stato un artista sostanzialmente legato alla sua terra e al retaggio culturale cinese. Cresciuto in un contesto pedemontano e in una famiglia che valorizzava l’istruzione, ha sviluppato fin da piccolo un amore estremo per il paesaggio natio, che ha trovato espressione naturale nella sua pittura. La sua formazione ha inizio presso la Scuola Tecnica Normale di Canton (Guangzhou, nota anche come Yangcheng, il cui simbolo è il fiore di cotone rosso, dove ha studiato a fondo gli stili pittorici delle dinastie Song, Yuan, Ming e Qing). Successivamente, ha avuto la fortuna di essere allievo del maestro Li Shouzhen, a sua volta discepolo di figure di spicco della Scuola Lingnan. Un incontro che ha segnato un punto di svolta nella sua carriera, guidandola verso direzioni originali. La Scuola Lingnan è un movimento artistico che ha influenzato grandemente la pittura non solo cinese ma anche nipponica. È considerata uno dei principali movimenti artistici della pittura cinese del XX secolo. La sua importanza si è estesa sia in Oriente che in Europa, contribuendo alla rinascita dell’arte figurativa cinese. Li Fangyuan ha ereditato dal suo maestro i principi della Scuola Lingnan, adottando un approccio innovativo, evidente nelle oltre mille opere realizzate nella sua vita. Le sue immagini con i fiori di cotone rosso, simbolo di Canton (in cinese Guangzhou), sono un esempio di come l’artista osservasse la natura e la decifrasse in codici e lemmi di allegorie visive riferite alla stagione gioiosa della primavera. Ogni anno, tra marzo e aprile, questi alberi si ricoprono di fiori e foglie, assumendo un aspetto maestoso che comunica una forte energia e vitalità. I fiori di cotone rosso, vividi e grandi, catturano lo sguardo con il loro colore acceso.
Moderno cantore di Yangcheng, ha trasferito il proprio vigore spirituale sulla tela attraverso specifici e ingegnosi espedienti: colpi di pennello brevi ma coordinati per esprimere un’idea, uso di poche tracce e di elementi minuscoli interconnessi tra loro per generare dinamismo. Queste procedure, sapientemente combinate, creano un forte impatto emotivo. Il cotone rosso acquerellato da Li Fangyuan assume così una personalità distintiva, turgidamente inchiostrata. Gli strati cromatici sono identificabili ma fusi insieme esprimono forza e grazia. Nella pioggia d’inchiostro delle sue tele si percepiscono una potenza e una vitalità antiche, scaturenti dall’armoniosa unione di tratto, inchiostro, colore ed acqua. Il risultato è un’esplosione di vitalità che celebra la rinascita della natura, in cui traspare la completa padronanza dei sistemi pittorici storicamente sviluppati in Cina e una grande sensibilità nella traduzione attualizzata dei soggetti illustrati. In un dipinto in cui il tema sono i fiori gialli, la fluidità delle campiture e l’equilibrio cromatico tra il giallo acceso e il blu-verde scuro creano un’armonia elegante, seppur con una composizione non perfettamente simmetrica, tipica di un punto di vista più coerente alla situazione odierna. Il polittico con uccelli e fiori rossi mostra una maggiore dinamicità, con pennellate rapide che suggeriscono movimento, contrapposte alla staticità dei fiori, creando un ritmo di calibrata tensione visiva.
In altre raffigurazioni, più volte Li Fangyuan ritrae un gallo con macchie ampie e sicure ma più leggere per descrivere il contesto circostante con un’atmosfera serena e intima. L’artista utilizza la pittura come un pianista che suona il pianoforte, alternando segni decisi ad altri più leggeri, creando una consonanza visiva che risuona con la stessa profondità emotiva di una melodia suonata con maestria sulla tastiera. In tutte le sue produzioni, la semplificazione delle forme e la maestria nell’uso dell’inchiostro e del colore sono evidenti, componendo scene animate da un grande impatto visivo. L’artista ha prediletto l’utilizzo di pennelli realizzati con coda di cavallo selvatico, una scelta che gli ha consentito di ottenere un tratto particolarmente vivace e dinamico. Ha lavorato prevalentemente su carta cotta, un materiale che ha contribuito a mantenere una sensazione di vibrante umidità, sviluppando varianti originali della tecnica della “collisione acquea”, intervenendo sul colore con l’acqua per espanderlo prima che si asciugasse. Questo processo, apparentemente semplice, ha permesso a Fangyuan di creare effetti cromatici unici e intensi. L’estetica della sua arte annota e trasfigura la realtà, animando nello spettatore l’esigenza di un ulteriore avvicinamento contemplativo alla dimensione interiore e spirituale. La calligrafia presente nei dipinti, riporta frasi evocative e poetiche, e arricchisce il significato complessivo dell’opera, aggiungendo un’ulteriore fonte di stimolo e di curiosità.
Pittura e resilienza culturale nell’opera di Li Fangyuan
Gli anni ’50 hanno rappresentato un periodo di grandi difficoltà per Li Fangyuan. Come ha evidenziato Stefano Giovannini, l’artista è stato accusato ingiustamente di essere un oppositore del regime durante la campagna contro gli “elementi di destra”. “Quello era un periodo di caccia alle streghe”, ha affermato Giovannini, sottolineando l’ingiustizia subita dall’artista. Tale accusa, seppur infondata, ha avuto conseguenze dirette sulla sua vita. Li Fangyuan ha perso il suo posto di lavoro accademico, vedendo compromessa la sua posizione. Tuttavia, non si è arreso. Ha aperto un proprio studio privato, dove ha continuato a trasmettere le sue competenze a un piccolo gruppo di allievi. Questo studio è diventato un rifugio intellettuale, un luogo dove preservare la tradizione pittorica cinese in un periodo di repressione. “Fangyuan non era interessato alla politica”, ha spiegato Giovannini, sottolineando che si trattava di un artista che si esprimeva attraverso la pittura e che ha trovato nell’insegnamento una forma di resistenza culturale. Li Fangyuan non ha mai realizzato opere antigovernative. La revoca del suo titolo di docente è stata poi rivista, e le autorità probabilmente lo hanno ritenuto non pericoloso. La carriera di Li Fangyuan è costellata di attestazioni di merito.
Nel 1995, ha ricevuto il Premio “Per una vita dedicata alla pedagogia” da parte del Comune di Canton. Questo riconoscimento, come evidenziato in precedenza, è arrivato in un periodo congiunturale diverso. ma di grande valore anche se circoscritto a livello locale. Negli anni, ha tenuto numerose mostre, tra cui la sua prima personale nel 1982 al mercato floreale del quartiere di Yuexiu, e un’altra all’Accademia di Pittura del Guangdong nel 2008. Nel 2012, ha collaborato alla pubblicazione di una raccolta di lavori calligrafico-pittorici per celebrare il centenario della biblioteca della città di Zhongshan. Il suo impegno ha iniziato ad essere stimato con ammirazione anche al di fuori della Cina, grazie alla figlia minore, Li Luyun. Con una determinazione che ricorda quella del padre, Li Luyun tramite l’Associazione Pedone fondata da Li Zhiying ha organizzato mostre in Italia, superando le iniziali resistenze delle sorelle maggiori, che consideravano le opere del padre un patrimonio familiare da proteggere. Sono recenti le mostre di Li Fangyuan in diverse gallerie italiane, tra cui quella ospitata nel 2022 dalla Galleria Casa di Dante a Firenze e dal titolo “Colori indelebili”. Questa iniziativa ha permesso di far conoscere l’opera di Li Fangyuan a un pubblico internazionale, aprendo nuove prospettive interpretative e di valorizzazione della sua unicità. Nella visione artistica di Li Fangyuan, la relazione tra la storia e la modernità, tra l’espressione artistica e il contesto sociale, risulta fondamentale per arginare gli effetti devastanti di un’epoca globalizzata che in rapida ascesa sta cancellando l’ampia ricchezza di idiomi e linguaggi fioriti nelle diversità espressive di tutti i Paesi del mondo, sostituendo il DNA tipico di ogni territorio con modelli e modalità estranee alle realtà locali. L’opera di Li Fangyuan nel suo insieme costituisce un importante patrimonio da condividere perché dimostra come sia possibile mediare il sapere e la sapienza del passato con il presente, mantenendone viva l’essenza e integrandola a una visione personale del tempo attuale.
Dal 6 al 9 marzo 2025 a Morbegno, presso il Chiostro S. Antonio, la mostra Amazzoni, a cura della scultrice Martina Fontana
Testo a cura di Giovanna Brambilla Foto di Daniela Pellegrini
Indossare cicatrici. È in questo gesto che la pratica dell’artista Martina Fontana incontra il vissuto e l’esperienza del gruppo “Amazzoni” fondato nel 2008 dalla Dott.ssa Patrizia Franzini, che supporta chi sta vivendo un percorso di malattia oncologica al seno. Elemento centrale del progetto è la scultura collettiva/scudo, realizzato attraverso una serie di incontri e un workshop. Sulla sua superficie prendono forma le riproduzioni di nodi e tagli campionati da alberi presenti sul territorio che le Amazzoni hanno scelto e catturato. Indossare cicatrici. È in questo gesto che la pratica dell’artista Martina Fontana incontra il vissuto e l’esperienza del gruppo “Amazzoni” fondato nel 2008 dalla Dott.ssa Patrizia Franzini, che supporta chi sta vivendo un percorso di malattia oncologica al seno. Elemento centrale del progetto è la scultura collettiva/scudo, realizzato attraverso una serie di incontri e un workshop. Sulla sua superficie prendono forma le riproduzioni di nodi e tagli campionati da alberi presenti sul territorio che le Amazzoni hanno scelto e catturato.
Questo oggetto, ideato da Martina Fontana, non solo protegge le donne ritratte nelle foto all’interno della mostra, ma rappresenta anche la loro capacità di rigenerarsi e rinascere dopo la malattia. Gli alberi, infatti, sono noti per la loro capacità di guarire le ferite e continuare a crescere, simboleggiando la resilienza e la forza.
“Insieme abbiamo lavorato sull’immagine e sul significato profondo delle cicatrici, visibili e invisibili. I calchi dei nodi degli alberi sono stati assemblati in un’unica scultura a forma di scudo con il quale ogni Amazzone ha scelto come rappresentarsi in relazione al proprio corpo e al proprio vissuto.” racconta Martina Fontana.
“La fotografia, in questo contesto, è uno strumento terapeutico e un rituale potente. L’atto di farsi ritrarre nude, vedendo ciò che si ha più paura di vedere, può essere un modo per “ritrovarsi” superando frammentazioni interne e promuovendo un’accettazione profonda in una sorta di ricostruzione dello sguardo. I corpi diventano mappe e paesaggi del dolore e della rinascita.”racconta Daniela Pellegrini. Corpi nudi, semplici e reali, si mostrano o si nascondono, si fanno scudo e si sostengono tra loro, divenendo un corpo unico che attinge alle energie primordiali degli elementi e ad una forza interiore più segreta e sotterranea.
All’interno della mostra l’installazione 19 stelle celebra la forza del gruppo come punto di orientamento e guida per tutte le donne che ne fanno parte. I nodi argentei seguono la disposizione degli astri che compongono la costellazione di Orione, il gigante con lo scudo. Il dolore cede il passo alla bellezza, la luce e la forza delle compagne segnano una strada luminosa da percorrere verso la rinascita.
Naked. Behind the mirrorNaked, è una mostra di Silvia Rastelli curata da Luciano Bolzoni e Fortunato D’Amico. Silvia Rastelli, figlia d’arte e originaria di Piacenza, ha ereditato la passione per l’arte dal padre scultore, trascorrendo la sua infanzia nella sua bottega. Questo ambiente ha plasmato la sua formazione artistica, che si snoda tra la pittura e la danza, culminando in una laurea in Pittura e successivamente in Area del Contemporaneo all’Accademia di Brera di Milano. L’arte di Silvia Rastelli è un ponte tra il passato e il presente, un dialogo costante tra il “Io” e il “Noi”. Il legno, materiale prediletto del padre, diventa la tela per raccontare storie personali, ma sempre in dialogo con la società e le sue relazioni. I suoi ritratti, che interpretano i volti come aree geografiche emerse dall’inconscio, sono simboli di liberazione dai pregiudizi e dall’intolleranza razziale, come sottolineato da Fortunato D’Amico. “Naked. Behind the Mirror” esposta presso la sala Bipielle Arte di Lodi rappresenta un momento di profonda introspezione per l’artista. Silvia Rastelli si mette a nudo, esplorando la propria sfera personale e ponendola in relazione con la collettività. Questo percorso artistico è un viaggio attraverso uno specchio magico verso il cambiamento, senza perdere se stessa. L’arte diventa uno strumento di scoperta e di espressione, come sottolinea Luciano Bolzoni. L’ approccio multisensoriale, coinvolge tutti i sensi: olfatto, vista, gusto, tatto, udito e propriocezione. In collaborazione con il musicista Denny Cavalloni, Silvia Rastelli crea un’esperienza sensoriale che invita il visitatore a interagire con il mondo circostante e a sperimentare nuove prospettive. Questo gioco di specchi riflette il “noi”, mettendo in luce il sé e l’altro in un’esperienza unica e coinvolgente.
Nella tarda mattina del 20 novembre 1953, uno dei tanti treni proveniente dal sud italia si fermò, con qualche ora di ritardo, alla stazione Centrale di Milano. Il giovane ragazzo, ancora minorenne, scese dal vagone sul quale aveva viaggiato e pose i piedi sulla nera panchina del binario, tenendo in mano una valigia stracolma di sogni e belle speranze, di profumi e colori rubati ai paesaggi vividi della sua terra natia, intorno alla città di Lecce.
Quel giorno una nebbia insidiosa nascondeva il volto della città. Sarebbe stato impossibile per chiunque riconoscere un essere umano, un’automobile, un tram o un bus se non gli fosse passato accanto. La radio e i giornali non facevano altro che parlare di questo fenomeno padano, che nelle stesse giornate si manifestava a Londra così come in molte altre città europee di vocazione industriale. La nebbia di quei giorni aveva causato il decesso di molte persone in Inghilterra, a seguito dello smog e dei veleni sospesi nell’aria.
All’uscita dalla stazione, il panorama era completamente diverso da quello che possiamo osservare oggi. Il grattacielo Pirelli, che sarebbe diventato nel decennio successivo il simbolo di una città laboriosa, entusiasta e in grande fermento, non era ancora stato costruito.
Catapultato in una situazione completamente avulsa e distante dalla briosa atmosfera salentina, il giovane Ercole notò subito che nella piazza antistante alla stazione, oltre che alle fermate dei bus e dei tram, campeggiava una serie imponente di tabelloni pubblicitari. Anche questo non rappresentava affatto uno scenario consueto per lui, proveniente dalla parte più estrema d’Italia
Uno di questi manifesti catturò particolarmente la sua attenzione. Informava di una mostra in corso a Palazzo Reale dedicata al più grande artista vivente dell’epoca, colui che aveva dato una svolta significativa all’estetica e al pensiero artistico del Novecento. Era la mostra di Pablo Picasso. Senza pensarci troppo, chiese ai passanti quale fosse il mezzo più vicino per arrivare in Piazza del Duomo e li si diresse. Ercole rimase affascinato dalla maestosità della mostra. Qui esposto per la prima volta il celebre Guernica. L’opera suscitò in lui una forte emozione, proprio per quella potente e particolare denuncia visiva che Picasso era riuscito a trasmettere ai visitatori.
Il destino volle che settant’anni dopo, proprio nella Sala delle Cariatidi, dove il dipinto era esposto, Ercole Pignatelli realizzerà una performance di 12 giorni, dipingendo una tela ispirata proprio a questo capolavoro. Chi l’avrebbe mai detto allora? Forse solo lui, che aveva già proiettato la sua mente verso una carriera artistica di successo.
Le lancette dell’orologio segnavano già le 18 quando Ercole, uscito dalla mostra, non aveva ancora un posto dove pernottare. Non ci aveva ancora pensato. La sua mente era immersa nei fantasmagorico universo dei quadri di Picasso. Improvvisamente, resosi conto che era già buio, si avviò con rapidità verso l’edicola più vicina per comprare il Corriere della Sera. Nella pagina degli annunci trovò un affittacamere con un letto disponibile in via Formentini al numero 5. Dopo aver depositato i bagagli nella stanza, scese in strada per cercare un locale dove cenare. A pochi passi dall’abitazione, notò un bar con le luci accese e molti frequentatori in piedi che parlavano e affollavano la saletta. Lui non lo sapeva, ma quello era il mitico “Bar Jamaica,” il cuore della cultura e della ricerca artistica della città. All’ingresso incontrò il pittore Ettore Sordini, che, notandolo spaesato, gli chiese cosa ci facesse lì. Dopo essersi presentato, desiderò farlo conoscere agli altri avventori presenti quella sera al bar. Tra questi c’erano Salvatore Quasimodo, Dino Buzzati, Ugo Mulas, Lucio Fontana, Milena Milani e molti altri, compreso Piero Manzoni. Nel giro di poche ore dal suo arrivo a Milano, Ercole Pignatelli aveva già conosciuto il gotha dei personaggi che da di lì a poco avrebbero fatto la storia dell’arte italiana. La sua vita si intrecciò immediatamente con quella dei nuovi amici del Bar Jamaica. A soli 100 metri dalla sua abitazione il bar rappresentava un vero e proprio salotto culturale, dove gli artisti si scambiavano e condividevano idee e progetti, creando momenti di convivialità che avrebbero dato vita a grandi amicizie. Il legame con Piero Manzoni si rivelò subito speciale. Entrambi non solo coltivavano passioni artistiche, ma anche esperienze quotidiane che avrebbero influenzato il loro percorso espressivo.
Ercole Pignatelli e Piero Manzoni si trovarono insieme a collaborare con Lucio Fontana. I due giovani divennero i suoi preziosi assistenti, chiamati a svolgere compiti pratici, come l’acquisto di colori, la preparazione dei materiali, l’intelaiatura delle tele, ma anche a portare contributi d’ispirazione al lavoro del grande maestro. Trascorrevano intere giornate a discutere di poesia, letteratura, tecniche artistiche e visioni del mondo.
Un intenso scambio di idee arricchiva la loro formazione artistica e alimentava il clima di fervore creativo che caratterizzava lo spirito di quegli anni. Le loro conversazioni incoraggiavano una costante sperimentazione artistica. Questa sperimentazione si traduceva in una forte espressione formalizzata nelle loro opere, ognuna realizzata secondo le modalità e i linguaggi personali di ciascuno. Tuttavia, nel 1963, la vita riservò una tragica sorpresa. Piero Manzoni, colto da un malore nel suo nel suo studio in via Fiori Chiari 16, lasciò improvvisamente questo mondo. In quel luogo, dove egli aveva creato le sue opere principali, ormai diventate un must dell’arte internazionale, Ercole Pignatelli renderà omaggio al suo amico scomparso esponendo 15 lavori realizzati nei dieci anni di intesa, collaborazione e crescita culturale vissuta insieme. La mostra è un viaggio nel tempo e un tributo a Piero Manzoni e a un’epoca in cui il Bar Jamaica costituiva il fulcro di una rivoluzione culturale che ha lasciato un’impronta indelebile nella storia dell’arte. “Il Ragazzo Rondine,” così aveva definito Raffaele Carrieri il giovane Pignatelli, in quegli anni prenderà il volo verso lidi dove l’immaginazione e la poesia trasformano magicamente la realtà in un grande sogno da condividere. Un luogo dove ognuno di noi può vivere la propria favola, uno spazio dell’anima che offre a tutti una chance e la speranza che il miracolo possa davvero avvenire, anche oggi, ora, in questa città. Qui, dove Cesare Zavattini un giorno urlò alle platee di tutto il mondo: “Miracolo, Miracolo… Miracolo a Milano.
Sara Forte nasce a Verbania. Autodidatta, fin da giovanissima si dedica alla pittura, e perfeziona la tecnica sperimentando tutte le pratiche pittoriche dal disegno con grafite, pastelli a olio e sanguigne all’incisione a punta secca, maniera nera e acquaforte, approdando alle soluzioni ad olio e in acrilico. Quella che era solo una passione diventa una professione e tutto ciò che propone è frutto della sua personale esperienza e ricerca. Un equilibrio di forme e colori, tradizione pittorica e innovazione sono gli elementi sempre presenti nelle opere dell’artista. Al gioco iniziale del gesto dettato dall’ispirazione, si è via via sostituito un segno che va alla ricerca di una pittura che possa farsi tramite di messaggi universali. I simboli espressi dalle forme delle opere sono mutati in funzione di una sorta di nouvelle vague simbolico-astratta che è divenuta, ormai, cifra riconoscibile della sensibilità dell’artista.
Una figura che si attorciglia, che la Forte chiama “papiro” e che nasce in foggia di metafora dell’essere umano, del suo costante vivere in fieri, in una incessante evoluzione. Ha collaborato con artigiani orafi disegnando pezzi unici di gioielleria, e realizzato stampe per tessuti applicati alla confezione di abiti e accessori. Da anni la sua ricerca è volta alla realizzazione di sculture in vetro create direttamente nelle più importanti fornaci di Murano, dove le forme proposte nei quadri assumono una valenza tridimensionale e allegorica con diversi riferimenti alle opere dei più noti letterati del 900. Attualmente, la ricerca si rinnova nelle più recenti opere realizzate su disco di silicio, materiale che fornisce moltitudini di informazioni.
Opere tridimensionali dove l’artista mette da parte il collage su tela e sceglie il silicio come elemento concettuale atto a raffigurare l’evoluzione della comunicazione, manufatto di testimonianza di un discorso sull’uomo, un oggetto di archeologia moderna e di sintesi della complessità del vivere postmoderno. Esso, infatti, è oggi utilizzato come elemento principale nella costruzione di tablet, smartphone e computer. Versatile sperimentatrice di tecniche e tematiche diverse, ha al suo attivo diverse partecipazioni a mostre collettive e personali in Italia e all’estero. Ha esposto in Italia, Austria e Francia. Vive e lavora a Milano.
Chiude la rivista L’ARCA. È stata un punto di riferimento di eccellenza nella formazione di una nuova generazione di architetti, favorendo la diffusione e lo scambio di idee essenziali nel contesto professionale internazionale. Ha svolto un ruolo fondamentale nella promozione del dibattito architettonico e nell’innovazione tecnologica, grazie soprattutto alla dedizione e alla passione del suo direttore, Cesare Maria Casati. I suoi interessi interdisciplinari, la continua ricerca di soluzioni innovative nell’architettura e nel design, e l’infinita curiosità per tutto ciò che ruota attorno all’attività professionale hanno arricchito la rivista con punti di vista originali, sempre anticipando i tempi dell’innovazione. Dobbiamo riconoscere anche la notevole abilità del direttore nel riconoscere e promuovere talenti emergenti, che senza l’ARCA potrebbero non aver mai avuto una vetrina così competente per presentarsi al pubblico. Questo vale anche per il Premio Dedalo Minosse, che ha potuto emergere tra i tanti premi di architettura grazie alla qualità dei contenuti promossi dalla rivista. L’ARCA ha saputo raccogliere il filo storico del dibattito architettonico, ereditando le riflessioni delle riviste precedenti e contribuendo al dialogo internazionale in cui Cesare aveva già avuto un ruolo significativo. Cesare Casati ha traghettato nell’ARCA il dibattito architettonico iniziato negli anni ’60, portandolo nella contemporaneità. La sua esperienza con Domus, diretta da Gio Ponti, dove entrò nella redazione negli anni ’60 e ne assunse la direzione dal 1976 al 1979, ha ulteriormente arricchito il suo bagaglio culturale. In seguito, fino alla nascita dell’ARCA, ha diretto la rivista La Mia Casa. L’ARCA chiude proprio in un momento storico in cui è sempre più necessario riattivare spazi e luoghi per la discussione, l’incontro e il confronto. Viviamo in un’epoca di rapidi cambiamenti che investono ogni aspetto della nostra vita, un’evoluzione che ha privato di significato e valore l’etica che dovrebbe sostenere qualsiasi principio ispiratore di un progetto di design o di architettura. Questa condizione ha lasciato spazio a un’estetica superficiale, priva di sostanza, all’emergere di un corpo formale senza contenuto reale.
Cesare Casati ha ragione quando, nell’editoriale di uno degli ultimi numeri della rivista, evidenzia che a più di vent’anni dall’inizio del nuovo millennio, l’architettura sembra mancare di innovazione strutturale e formale, nonostante i progressi nelle tecnologie di comunicazione e nell’intelligenza artificiale. Sebbene il telefono portatile si sia evoluto in un potente strumento di lavoro e comunicazione, il panorama architettonico non ha visto emergere nuove proposte significative dopo il lavoro pionieristico di Zaha Hadid, che ha saputo reinterpretare le geometrie fluide. In un contesto globale in rapida evoluzione, dove le città e gli spazi abitativi devono diventare sempre più sostenibili, è cruciale rilanciare i concorsi di idee. Questi eventi rappresentano una piattaforma fondamentale per i giovani progettisti, che spesso si trovano a dover competere con nomi già affermati nel settore. È importante ricordare che molti architetti di successo hanno iniziato la loro carriera vincendo concorsi prestigiosi, come nel caso del Centre Pompidou a Parigi. Casati afferma con decisione che affinché le imprese e i committenti pubblici possano affrontare efficacemente le sfide attuali, è necessario promuovere una nuova cultura della competizione. Questa deve mirare a scoprire talenti freschi e soluzioni innovative per combattere il degrado delle periferie e rispondere alle esigenze della società contemporanea. In sintesi, per garantire un futuro architettonico ricco di innovazione e sostenibilità, è fondamentale valorizzare i giovani progettisti attraverso una rinnovata attenzione ai concorsi di idee. Solo così potremo affrontare le sfide di un mondo in continua evoluzione e costruire spazi urbani che rispondano alle esigenze future. Un ringraziamento particolare quindi a Cesare Casati e l’augurio che l’ARCA possa riaprire presto le pubblicazioni e che un editore lungimirante comprenda l’importanza di mantenere attiva questa rivista.
L’incontro tenutosi al Museo d’Arte Contemporanea di Lissone, sabato 16 novembre 2024, per premiare Mario De Leo ha rappresentato un momento significativo per celebrare il suo percorso artistico e il suo contributo al panorama culturale. L’artista, noto non solo per le sue opere pittoriche ma anche per il suo talento come musicista e compositore, ha ricevuto il premio “Artista interdisciplinare – Premio Acca”, un riconoscimento che evidenzia la portata innovativa della sua pratica multidisciplinare.
Il suo studio “Perlarte” è ormai un punto di riferimento a Lissone, dove l’artista ha costruito negli anni un dialogo costante tra arti visive e musica, contribuendo a ridefinire i confini della creatività. La serata, arricchita dalla presenza di critici e collezionisti, ha offerto un’occasione di riflessione sull’importanza dell’interdisciplinarità come approccio alla complessità del contemporaneo.
Mario De Leo ha impreziosito l’evento con una performance che ha coinvolto emotivamente i presenti, ponendo in evidenza l’intensità e la versatilità della sua ricerca. La conferenza moderata del presidente di Acca, Walter Tosi, ha visto la presenza dei critici Fortunato D’Amico e Felice Bonalumi, con interventi del direttore del magazine Agorà, Luca Bertazzini, ha approfondito le influenze e gli sviluppi del lavoro di De Leo, tracciando un ritratto vivido e complesso della sua figura. Numerosa la presenza degli artisti, tra questi Max Marra, con cui De Leo a condiviso un lungo percorso professionale.
L’incontro ha sottolineato l’importanza di creare occasioni di dialogo tra artisti, critici e pubblico, evidenziando come il sostegno reciproco rappresenti un terreno fertile per la crescita culturale. Il Museo di Lissone, attraverso questa iniziativa, si conferma un luogo cardine per la promozione dell’arte come strumento di connessione e riflessione.
Celebrando figure come Mario De Leo, si riafferma una visione dell’arte che supera i confini disciplinari tradizionali, promuovendo un linguaggio in grado di dialogare con una società sempre più interconnessa e ricca di stimoli. Un’occasione preziosa per ribadire il valore dell’arte come espressione universale e come elemento fondante della cultura contemporanea.
Intervento site specific di alla Biblioteca Pubblica Fernando Tola de Habich
Puebla (Messico)
L’Universo Espanso: Riflessioni su Arte, Architettura e Spazio Pubblico
L’idea di un universo espanso va oltre i confini e le convenzioni stabilite nella società contemporanea. In questo contesto, la lettura di un ambiente urbano degradato non può limitarsi a un’analisi puramente architettonica; deve abbracciare una visione artistica e futuristica. È fondamentale considerare come il paesaggio urbano possa trasformarsi non per imposizione, ma attraverso analogie che riflettono le esperienze umane.
Un Nuovo Approccio Critico
Il momento storico attuale richiede l’adozione di nuove categorie critiche e terapeutiche per affrontare le idee e la realtà urbana e sociale. Espandere le discipline e le idee diventa un atto di emancipazione necessario, un’emergenza che invita a riflettere su come pensare e agire in modo costruttivo all’interno del corpo sociale. Questa proposta si riferisce a un intervento site-specific presso la Casa della Cultura di Puebla, focalizzandosi sulla biblioteca e sulla letteratura del XIX e XX secolo. L’obiettivo è creare uno spazio dove diverse discipline si incontrano, arricchendo l’esperienza sensoriale e intellettuale degli utenti. La biblioteca diventa così un luogo di incontro per il pensiero umano, dove architettura, design, letteratura, scultura e pittura si fondono in un’unica esperienza.
La Biblioteca come Tempio della Conoscenza
Per l’artista, la biblioteca non è solo un luogo di venerazione, ma un tempio di incontro e rivelazione dei misteri della conoscenza. Questo spazio diventa cruciale nella costruzione di un ambiente pubblico che è anche privato, dove gli utenti possono esplorare la dialettica creata dai legami strutturali tra gli elementi del luogo. Lo spazio pubblico e domestico è concepito come un laboratorio suscettibile di intervento. Qui, arte e artificio convergono in un approccio multidisciplinare, liberando l’ordinario da una routine opprimente.
L’Universo Espanso: Comprensione e Impegno
Il concetto di universo espanso si basa su una comprensione poliangolare della realtà. Questa visione dinamica invita a considerare i sensi come strumenti per ampliare l’orizzonte della comprensione olistica del mondo. È una lettura multidimensionale che incoraggia un cambiamento di atteggiamento dall’estetica all’etica, coinvolgendo ciascuno di noi nella consapevolezza di essere parte di un continuum temporale. R. Sesma descrive la città come una mappa che genera conoscenza e certezza, trasformandosi in un laboratorio per il cambiamento sociale. La città è vista come soggetto suscettibile di intervento, pronta per essere avvolta da nuove idee e pratiche artistiche.
Spazio Empirico Multisensoriale
Questo lavoro si propone come uno spazio empirico multisensoriale che coesiste con arte e architettura. Diventa una porta d’accesso a se stessi, costruito come parte integrante dell’esperienza umana. L’interazione tra artista e spettatore evolve da semplice osservazione a partecipazione attiva. Benjamin Buchloh definisce questa esperienza come “scultorea”, sottolineando l’importanza dell’intervento nello spazio pubblico per poetizzare il luogo attraverso le relazioni dialettiche tra i diversi elementi del contesto.
La Scultura come Pratica Meditata dello Spazio
Nell’ambito della scultura, l’intento è quello di generare spazio nello spazio stesso. L’opera diventa trasparente attraverso proiezioni matematiche che esplorano forme geometriche ideali. Non si tratta solo di contemplazione; il focus è sul processo di trasformazione dell’opera stessa. L’opera scultorea manifesta una realtà propria che supera la sua identità oggettiva. Essa inizia e finisce come se stessa, rappresentando uno spazio partecipato e vissuto.