La scorsa settimana due notizie giunte alla ribalta dei social mi hanno colpito. La prima riguardava l’appostamento con conseguente arresto di un sedicente rapper romano divenuto famoso su web e whatsapp non per le sue doti canore, che non conosco, ma per le sue imprese alla guida della macchina dove, a mezzo diretta social, “insegnava” un certo tipo di guida ai suoi followers. Nel video che lo ha reso famoso a un certo punto prendeva un muro e al grido di “ho preso il muro fratellì, ho preso il muro. Se hai salvato il video hai fatto i soldi fratellì, hai fatto i soldi fratelli”, ha iniziato a invadere pc, laptop e, ovviamente, smartphone di chiunque, con tanto di meme e prese per i fondelli varie. La sua sfortuna è stata che il clamore generato, oltre ad aver scatenato haters di tutti i tipi, ha smosso la curiosità delle forze dell’ordine, che hanno semplicemente tracciato gli spostamenti ripetuti di “Fratellì” dalle sue dirette per aspettarlo e arrestarlo agevolmente. Sempre dai video i capi d’accusa. La seconda riguardava Francesco, ragazzo di Pordenone che per passione del calcio si sposta a vivere dalla nonna a Monfalcone, cambiando anche scuola e incontrando una professoressa che riesce a stimolare lui, come i compagni di classe, nella passione per la matematica. Così Francesco si applica, applica le sue innate doti e a sedici anni inventa una nuova formula per il calcolo dell’area di un segmento parabolico (ammetto di avere difficoltà anche a capire cosa ho appena scritto) per “velocizzare” la formula algebrica in utilizzo che si rifaceva al Teorema di Archimede. Ah, tra l’altro Francesco, che di cognome fa Bulli, suona il violino… così per dire. Due notizie, direi abbastanza opposte, che hanno circolato sul web con alterne vicende. La prima desta ancora scalpore e nel frattempo anche il padre si è prodigato in difesa del figlio. La seconda la devi cercare con Google, Ecosia o il vostro motore preferito. C’è da scandalizzarsi? E perché? Serve questo o altro esempio per indicare il momento in cui viviamo? Io stesso mi sto chiedendo se sia il caso di continuare a scrivere un articolo se poi non la media, ma la stragrande maggioranza di chi frequenta internet non ha la pazienza di terminare di leggere un post? Spesso mi capita di argomentare con gli amici sulla necessità di alzare il livello medio della cultura generale. Il problema però è capire il come, perché 10 Francesco hanno sicuro un potere di miglioramento, ma a livello sociale, parlando di società, non modificano i valori normali. “Ma è sempre stato così!” Sì, è vero, ma non lo sapevamo. Non avevamo i mezzi tecnici per comprendere tante cose, eravamo manipolati, ma non avevamo modo di arrivare alle manopole. Oggi potremmo. Potremmo, ma con quali mezzi? Basta attivarsi? No, è necessario attivarsi, ma essere anche coscienti sul che cosa, come e perché attivarsi. In Italia abbiamo avuto un passaggio da prima a seconda Repubblica praticamente indolore, probabilmente incolore, sicuramente fittizio. Tra gli anni novanta e il primo decennio del secolo attuale abbiamo assistito al crollo dei vecchi politici, a un iniziale peggioramento della classe dirigente, all’entrata dell’euro a completo discapito delle classi sociali più basse e al disfacimento di alcuni valori già per noi precari. Nell’ultimo decennio abbiamo visto il sorpasso della propaganda social sulla politica tout court con il raggiungimento di vette auliche con il drink o l’arancino in mano, l’esaltazione della news anche se evidentemente fake e l’imporsi di valori sempre più fast e sempre più consumistici che hanno decretato definitivamente la morte non solo del comunismo, ma anche del capitalismo come lo conoscevamo. Di certo è successa una cosa che la pandemia del Coronavirus non ha fatto altro che rendere pubblica: a distanza di 30 anni si è completato il processo di sostituzione e nell’amministrazione pubbliche, centrale e/o locale, il livello medio di preparazione è crollato, non è morto il clientelismo e le nuove generazioni sono meno appassionate al concetto di cosa pubblica. Per questo eravamo impreparati, anche se un piano anti-pandemia c’era, solo che non lo sapevano; per questo non c’era alternativa al lockdown, tutti bravi a parlare dopo; per questo c’è ancora chi dice che non è successo poi un granché, perché è capitato in Lombardia, se il focolaio di Covid-19 si fosse scatenato nel Lazio molto probabilmente avremmo assistito a una strage. “Quindi i mali dell’Italia sono da ricercare negli impiegati pubblici?” No, nell’evasione fiscale, nella concussione/corruzione e nella criminalità organizzata. Il resto è figlio di questi fattori, ma forse è più facile metterci mano.
Giulio Ceppi, Andrea Felice, Fortunato D’Amico, dialogano sui temi del cambiamento e degli stati d’animo, conseguenti, caratterizzati dall’ambiguità temporale di cui ogni i trasformazione è portatatrice . Nei momenti di crisi, di metamorfosi, d’incertezza, quando il nostro abitare il mondo sembra naufragare nella provvisorietà e nell’incapacità di vedere il futuro, come possiamo riprogettare le nostre città e il nostro modo di stare insieme ?
In molti, la prima reazione quando sentono parlare di Agenda 2030, è quella di sgranare gli occhi e osservare l’interlocutore con la sufficienza che si riserva agli stolti e agli ingenui. Perché diciamoci la verità, gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu, appaiono ai più come un mero libro dei sogni, altro che becero populismo. No, dico, avete mai letto sti obiettivi? Tanto per dire, se ce la fate ad arrivare fino in fondo, sarebbero questi: “Porre fine ad ogni forma di povertà e fame nel mondo; Assicurare la salute e il benessere per tutti e per tutte le età; Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti; Raggiungere l’uguaglianza di genere; Garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua; Assicurare a tutti l’accesso a sistemi di energia economici, affidabili, sostenibili e moderni; Incentivare una crescita economica, duratura, inclusiva e sostenibile, un’occupazione piena e produttiva ed un lavoro dignitoso per tutti; Costruire una infrastruttura resiliente e promuovere l’innovazione ed una industrializzazione equa, responsabile e sostenibile; Ridurre le disuguaglianze all’interno e fra le Nazioni; Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili; Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo; Adottare misure urgenti per combattere i cambiamenti climatici e le sue conseguenze; Conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e le risorse marine per uno sviluppo sostenibile; Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre; Promuovere società pacifiche e più inclusive per uno sviluppo sostenibili; Rinnovare il partenariato mondiale per lo sviluppo sostenibile.”
…. Ma dai. Di che stiamo parlando?
E’ naturale avere una reazione quantomeno sarcastica. Concetti troppo semplici, elementari e ovvi, che non possono essere recepiti da alcuna complessa e sviluppata coscienza personale, o insegnati ad alcun figlio, o masticati in alcuna famiglia, figurarsi considerarli come manifesto di una programmazione politica planetaria. … Siamo seri, dai!
Banalizzare e semplificare il complesso mondo in questi termini è un insulto a tutti gli sforzi che gli uomini nel corso dei secoli hanno fatto per complicare la vita al prossimo, per arrivare al degrado sociale e culturale che dopo secoli di nichilismo e pensiero debole si è riusciti a realizzare. Quel decadimento che ha richiesto un processo di graduale deterioramento, tanto più lungo quanto più onorevole è stata la storia e la grandezza degli imperi distrutti, quella decadenza sociale che è stata l’arma di ogni dittatura e degenerato potere, costruiti con sacrificio da affamati e disoccupati, unico vero materiale con cui si possono edificare. Tutti quei sermoni fatti ai giovani pur di non offrirgli più gli esempi, per usucapire ogni diritto tanto da non farne percepire neanche più la perdita, l’assenza e l’arbitrio prepotente di chi li calpesta, perdendo ogni onore con l’indifferenza di chi non ha curato la propria casa. Il cambiamento del mondo, ora più che mai, è una “minaccia” senza alcuna forza, perché nessuno è esente da colpa, neanche chi oggi arrogando a se la sensibilità e l’adeguatezza si scandalizza di Sodoma e Gomorra, perché se avesse adempiuto a tale responsabilità sarebbe stato il guardiano che è mancato e la guida che non ha indicato. Nessuno oggi, tanto il genio con i suoi limiti che lo stupido dalle infinite risorse, è disposto a prendersi il pesante fardello della propria responsabilità e riconoscersi nel suo quotidiano e nel suo pensiero, avendo il comodo pretesto del governo ladro e della delegittimata politica, quella che pur votata dal popolo, alla fine e non si sa perché, non è espressione del popolo, così come il popolo non è mai espressione del singolo e noi non saremo mai espressione di noi stessi, figurarsi se vorremo trovare noi stessi nei nostri figli e nipoti.
Parlare ad un mondo decadente ed irragionevole, per attrarre l’attenzione e far emergere l’ipocrisia, i concetti vanno urlati con cinismo e contraddizione, smontando ogni alibi e disinteresse, svestendosi di confusi ideologismi per superare le diffidenze che rifiutano di cercare nuovi strumenti al servizio di una nuova visione.
La verità, probabilmente, sta anche nel fatto che parlare di sostenibilità, significa parlare anche di equità, concetto che per essere accettato da chi ha in mano la metà abbondante deve comprendere che non è una minaccia al suo privilegio, ma una garanzia per un futuro possibile. La verità, probabilmente, sta anche nel fatto che parlare di sostenibilità significa non chiedere più diritti indiscutibili senza adempiere agli obblighi civici e culturali di cittadino, di padre, di madre e di figlio, rispondendo ognuno con responsabilità e dignità al proprio ruolo, riconoscendo la legittima guida a chi propone soluzioni giuste prima ancora che comode e di facile consenso. La verità, probabilmente, sta anche nel fatto che parlare di sostenibilità, non è vero che fa comodo a tutti e che tutti la ricercano, perché non tutti, nonostante sia semplice, ovvia e banale, la comprendono, perché come spesso accade, il maestro appare solo quando l’allievo è pronto, e l’esempio spesso non c’è perché ci rifiutiamo di vederlo. “Sostenere la Sostenibilità”, spesso, significa anche mettersi in discussione.
Giulio Ceppi, Giulio Ceppi Architetto e Designer, Creative Director di Total Tool Foto di Giovanni Gastel
Non si può fare a meno di riflettere sul particolare momento storico che tutti stiamo vivendo e attraversando, caratterizzato da un cambiamento radicale riguardo la gestione del tempo e dello spazio; così le persone, dovendo rimanere nel perimetro casalingo e avendo a disposizione un tempo indefinito, si trovano a dover ristabilire un nuovo modo di vivere, scandito e contraddistinto da nuove abitudini.
In questo contesto è fondamentale tanto la possibilità di esprimersi quanto quella di conoscere le opinioni ed i pensieri di chi, per “deformazione professionale”, è abituato a figurarsi realtà in divenire, come nel caso dei progettisti.
In questa intervista Giulio Ceppi (1965), architetto e designer che vive e lavora a Milano e sul Lago di Como, occupandosi di progettazione sensoriale e design dei materiali, di sviluppo di nuove tecnologie e di strategie di identità, apre un dialogo intorno ad un futuro da visionare e disegnare insieme in seguito alla chiamata da parte della Ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina per far parte del comitato di esperti incaricati di progettare una nuova scuola che dovrà nascere dall’emergenza.
Angela Faravelli: Compito dell’architetto è saper tradurre in spazi vivibili ed esperienze reali le esigenze di cui la collettività non ha ancora pienamente preso coscienza. L’emergenza mondiale legata al virus Covid-19 che ha investito la nostra società come sta cambiando il tuo approccio al progetto?
Giulio Ceppi: L’architettura è una “scienza inesatta”, nel senso che è un’attività basata fondamentalmente sulle persone, sui loro comportamenti, sui loro bisogni, sui loro desideri e, nel momento in cui un evento come il virus Covid-19 modifica il contesto, anche i paradigmi dell’architettura cambiano, perché stanno mutando le distanze tra le persone, il valore della prossemica e il modo di relazionarsi con gli altri. Non bisogna dimenticare che il progetto è un’attività di relazione: non si può progettare da soli, ma sempre attraverso una negoziazione con altre persone, tramite riscontri e interazioni. Lavorando maggiormente in remoto si modificherà inevitabilmente qualsiasi tipo di progetto e le conseguenze saranno sicuramente di due tipi: una riguarderà gli obbiettivi ed i contenuti dell’architettura e l’altra le modalità ed i processi con cui l’architettura stessa opera nel reale. La missione, per noi progettisti, sarà sempre più saper essere dei traduttori, delle interfacce, tra ciò che è ancora “in potenza” e ciò che potrà poi divenire una pratica quotidiana. La grande sfida – e l’elemento che a mio parere determinerà la differenza – sarà la capacità di saperlo fare in maniera gentile e rassicurante, avendo sensibilità, modestia ed empatia, cosicché chi adotterà queste nuove soluzioni possa sentirsi coinvolto.
Progetto di Giulio Ceppi dell’Autogrill Villoresi Est, Lainate, 2015
AF: Nei tuoi progetti poni grande attenzione alla possibilità di rendere sempre più stratificata e complessa la percezione e fruizione dell’oggetto/edificio inserendovi aspetti e sfaccettature multisensoriali. Questa scelta rivela la tua costante attenzione dedicata alla ricerca di modelli universali e inclusivi. Puoi spiegare meglio i concetti di Design for All e Design for the Common Good? Da quando hai iniziato ad occuparti di queste tematiche? In quali progetti hai concretamente tradotto i punti teorici di queste discipline?
GC: Il mio avvicinamento al tema del Design for All e della progettazione inclusiva è maturato durante i 10 anni di collaborazione con Autogrill, azienda che opera nel settore dei servizi di ristorazione per chi viaggia, in cui ho avuto modo di rendermi conto e imparare che l’attenzione specifica ai bisogni e alle esigenze di individui appartenenti a categorie particolari modifica inevitabilmente il progetto, portando però una miglioria al complesso. Nel caso specifico del progetto dell’Autogrill Villoresi Est – collocato sull’autostrada Milano-Varese – mi sono trovato a dover operare in un contesto in cui l’architettura in quanto oggetto andava in secondo piano, basando principalmente le mie scelte sul fatto che si trattava sostanzialmente di un luogo di relazioni, dove la gente vive lo spazio per un tempo limitato ma caratterizzato da esperienze e bisogni tra loro molto diversificati: c’è chi viaggia per lavoro come un camionista, chi si sposta con dei bambini o degli animali, oppure chi arriva in motocicletta; si tratta di persone che hanno esigenze tanto diverse quanto le ha un disabile, un anziano o una persona che non parla la nostra lingua. Quindi questo progetto è stato un’esperienza sul campo, che mi ha permesso di definire e sviluppare una serie di attenzioni e di servizi basati su una logica inclusiva, capace di soddisfare esigenze differenti e particolari. Ad esempio il modo in cui è stato pensato che una persona disabile potesse fare la coda o portare un vassoio durante una fase di free flow ha modificato il modo in cui tutti fanno lo scontrino o acquistano un prodotto. Analogamente nel market si è pensato di inserire dei contenitori delle merci molto bassi per permettere sia ad un bambino che ad un disabile di prendere i prodotti a qualsiasi altezza e ciò ha cambiato interamente il paesaggio del market e l’ha reso per tutti più godibile. Dunque l’aspetto più interessante del Design for All è come le esigenze specifiche di alcune persone che sembrano delle minoranze – e magari quantitativamente lo sono – in verità rendono un edificio migliore per tutti, evitando le ghettizzazioni. L’attenzione dedicata alla protezione di categorie fragili, soprattutto il questo periodo in cui il virus Covid-19 ha colpito la popolazione in maniera indistinta, sono convinto ci permetterà di crescere, sviluppare e implementare questi micro-aspetti progettuali.
Giardino Letterario, Archidiversity, 2017 – Concept di Giulio Ceppi per un giardino inclusivo e smart
Il Design for the Common Good rappresenta un passaggio in più in cui l’attenzione è posta a favore del “Terzo settore”, legato a scopi sociali, mirando a progettare luoghi di grande qualità di relazioni ma anche di spazi dentro cui le relazioni avvengono; è importante trasmettere questo messaggio alle aziende, a chi si occupa del Corporate Social Responsability, perché l’attenzione verso terzi e la capacità di aiutare chi ne ha bisogno devono diventare pratiche diffuse nel quotidiano ed equamente distribuite nella società. Personalmente ho maturato questi aspetti nelle numerose collaborazioni con Dynamo Camp, realtà americana fondata da Paul Newman di diffusione mondiale che si occupa di far vivere a bambini con malattie terminali o con situazioni di vita molto difficili una settimana adrenalinica; l’Italia rappresenta un’eccellenza con la sede situata nel Parco dell’Abetone. In questo contesto ho avuto modo di constatare come il settore del volontariato fosse anche portatore di qualità estetiche, ambientali e architettoniche, consentendomi di guardare al progetto come ad un’attività molto orizzontale, al fine di creare delle strade – non dei sentieri elitari – percorribili ed accessibili a tutti, in cui la qualità arriva a toccare tante persone in maniera democratica e comunitaria; non mi è mai interessato il design come un esercizio solipsistico o puramente estetico, perché non credo che sarà la bellezza a salvare il mondo, ma l’etica dei valori, in quanto la bellezza da sola non può essere un valore fondante.
AF: Come pensi che l’architettura e il design possano aiutare a superare questa crisi mondiale? Come possono agevolare l’avvento di nuove modalità per vivere il tempo e lo spazio che in questo periodo hanno subito da una parte una forte dilatazione e dall’altra una pesante restrizione?
GC: Penso che l’architettura e il design debbano fare una profonda riflessione sul proprio statuto esistenziale e sugli obiettivi veri della disciplina e della professionalità del progettista, perché in questi anni ci si è occupati molto del superfluo e dei fattori puramente estetici a discapito dei contenuti, dei valori concreti delle cose e della loro autenticità. Una catastrofe come quella del virus Covid-19 mi auguro serva a far tornare autocoscienza, responsabilità e attenzione verso la qualità, togliendo la spettacolarizzazione che rende i progetti troppo autoreferenziali, narcisistici e autotelici, riportandoli invece al servizio della comunità, all’insegna di un vero e proprio richiamo alla deontologia e alla serietà dei progettisti, che dovranno dar prova di saper lavorare forse con meno ma “mettendo” di più.
Manifesto della rassegna sulla Smart City edizioni 2018-2019 curate da Giulio Ceppi per Material ConneXion Italia
Durante questi anni ho curato per Material ConneXion Italia alcune rassegne sulla Smart City, ovvero sull’impatto delle tecnologie e dei nuovi materiali nelle nostre città; sono certo che quello che sta accadendo in questo periodo modificherà in maniera drastica il futuro delle megalopoli, perché la densità e la promiscuità diventeranno un problema sempre più grande. Design e tecnologie dovranno operare per rassicurare le persone e stabilire dei nuovi comportamenti, diversi da quelli che abbiamo vissuto in precedenza, che non possono essere surrogati, ma dovranno creare nuove dimensioni antropologiche. Si dovrà lavorare sull’ibridazione tra digitale e analogico, tempo reale e differito, al fine di trovare delle dimensioni che permettano di incontrare gli altri pur mantenendo delle distanze; cambieranno tutti i servizi Pay to Rent e Sharing, ci saranno nuove regole dettate dalla necessità di incrementare l’igiene, focalizzando la ricerca sull’implementazione di materiali e processi legati alla sanificazione delle superfici.
AF: L’architettura e il design sono strumenti messi a disposizione della collettività affinché, attraverso il loro utilizzo, si possa procedere in direzione di un miglioramento della propria esistenza tramite la percezione e la consapevolezza. Pensi che il progetto possa educare l’anima e il comportamento delle persone?
GC: Certamente! Assolutamente sì. Dal mio punto di vista i progetti sono validi se maieutici, cioè se capaci di trasmettere alle persone valori e se sono in grado di suggerire in maniera partecipativa, aperta e positiva nuovi comportamenti. Uno dei miei maestri è stato Achille Castiglioni, il quale sosteneva che qualsiasi operazione progettuale non era relativa all’oggetto in sé ma al comportamento che questo avrebbe suggerito a terzi. Quindi è fondamentale pensare in una maniera human based, ponendo l’uomo al centro e cercando di dare alle persone non solo la sicurezza, ma soprattutto la consapevolezza attraverso la percezione sensoriale, estetica e funzionale. La mia attività di docenza al Politecnico di Milano mi ha permesso di compiere molta ricerca in questa direzione: anni fa infatti avevo diretto un laboratorio titolato Awarness Design, per aiutare concretamente le persone ad essere più consapevoli sui prodotti che ci circondano. Inoltre, quando devo citare un esempio che esalti l’aspetto legato alla consapevolezza mi viene sempre in mente l’attività che svolge Slow Food – associazione fondata da Carlo Petrini – che, attraverso il concetto di filiera, tracciabilità e biodiversità, ha contribuito ad innescare consapevolezza relativa al cibo, facendo capire cosa si sta mangiando e perché selezionando quel cibo si fa una scelta di natura etica ed esistenziale, non solo sensoriale. Insieme a Giacomo Mojoli, che è stato il Vice-presidente di Slow Food, abbiamo fondato il movimento Slow Design, non perché si andasse più piano ma per sondare la profondità, perché la slowness è comprensione, coscienza critica, rispetto a ciò che ci sta intorno e, a mio parere, per i progettisti è la mission più importante del loro lavoro: non creare stupore o presumere di creare bellezza – che comunque è un fattore molto soggettivo – ma aiutare le persone a capire la complessità del mondo e quindi, forse, capire di più anche sé stesse.
Hall e area ristorazione progettata da Giulio Ceppi nell’ambito di “Progetto Fare Scuola” promosso da Enel, Altomonte, 2018
AF: Puoi parlarmi dei tuoi progetti futuri? Quali occasioni lavorative pensi nasceranno per le figure di architetti e designer nel contesto di emergenza legato al virus Covid-19?
GC: In questo momento, anche in seguito lavoro svolto sulla comunicazione del Cenacolo Vinciano, con il MiBACT ci stiamo confrontando su come il virus Covid-19 abbia modificato i concetti di scurezza e prossemica nelle strutture museali, tenendo presente che non si tratta solo di una questione batteriologica ma anche di fattori inquinanti legati alle polveri sottili; stiamo quindi cercando di creare un progetto che permetta di fruire diversamente le opere d’arte e che aumenti la sicurezza – sia per gli oggetti che per le persone – e aiuti l’economia gestionale dei musei.
Un altro progetto su cui sto lavorando è il nuovo museo dell’ADI – Associazione Design Italiano – di cui sono responsabile per gli aspetti legati al Design for All e alla progettazione inclusiva. Sarà il più grande museo di design in Europa e avrà la funzione di avvicinare la gente alla quotidianità, perché gli oggetti di design sono pensati e progettati per un uso quotidiano, con l’accortezza però – per tornare alla consapevolezza – di farne capire la natura, l’origine, le motivazioni, quanto i limiti produttivi o gli aspetti di sostenibilità. L’idea è di dare corpo ad un museo dialogante che sia in grado di raccontare a tutti 60 anni di storia attraverso il Premio del Compasso d’Oro, rivolgendo particolare attenzione ai giovani, abituati ormai ad un consumo molto veloce degli oggetti, per farli invece ragionare sul valore estetico, simbolico, funzionale, ambientale e sensoriale: un vero e proprio esercizio di acquisizione e comprensione della complessità che ci circonda, ma in maniera dolce e positiva.
AF: La sera del 21 aprile 2020 la Ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina ha reso noti i nomi del comitato straordinario di esperti incaricati dal Ministero per lavorare sugli aspetti legati al “post-covid” per quanto riguarda la scuola. Facendo parte di questi membri puoi raccontarmi la tua visione di “scuola ideale” tenendo conto del contesto di emergenza che stiamo affrontando?
Arredi per l’infanzia Playpiù progettati da Giulio Ceppi per le scuole di Reggio Children, 2005
GC: Professionalmente sono cresciuto dentro la dimensione della “scuola” perché l’esperienza per me più significativa sono stati gli otto anni trascorsi in Domus Academy, considerata negli anni ’90 la Scuola di Design più importante al mondo dopo il Bauhaus. Qui ho imparato ad avere un approccio aperto in quanto ho sempre inteso l’attività progettuale come esperienza formativa. Secondo me la “scuola ideale” è quindi una scuola dove si possa esplorare e ricercare, incuriosirsi verso il nuovo: esempio emblematico sono le scuole di Reggio Children con le quali ho instaurato un rapporto di interscambio da più di vent’anni. Infatti nel 1997 il mio ultimo lavoro in Domus Academy è stato il metaprogetto di ambiente per l’infanzia “Bambini, spazi, relazioni” concretizzatosi poi anche in un libro – ad oggi tradotto in molte lingue diverse – diventato un manuale di riferimento. Con Reggio Children abbiamo sempre avuto la comune condivisione dell’idea di scuola come un luogo estremamente aperto, non autoreferenziale e legato ad una definizione preconcetta di sapere, ma uno spazio dove i soggetti hanno la possibilità di dotarsi di strumenti per imparare a gestire autonomamente conoscenza e cultura.
Copertina del libro “Bambini, spazi, relazioni. Metaprogetto di ambiente per l’infanzia” (1997) a cura di Giulio Ceppi e Michele Zini
Infatti ritengo che il designer sia una figura in perenne apprendimento e formazione, concetto che cerco di passare ai miei studenti del Politecnico di Milano, comunicando loro la voglia di imparare e di crescere culturalmente durante tutte le fasi della vita. La scuola dovrebbe essere non tanto un luogo definito da un perimetro di mura, bensì un’attitudine da trasmettere a tutti gli individui nel momento in cui frequentano fisicamente un edificio, trasformando un atto individuale in qualcosa di cui ci si deve impossessare, in una necessità personale che nasce nella collettività e diventa una condizione di vita.
Concept di Giulio Ceppi per architettura di collegamento per il Nenjing Experimental Kindergarden (Cina), 2019
Ho insegnato in molte Facoltà di Architettura diverse tra loro – da Torino a Milano, da Roma a Genova – e ho tenuto Master, Corsi e Laboratori in una ventina di paesi diversi del mondo – dalla Cina al Sud America, e tanti altri luoghi fuori dall’Italia – cercando di portare sempre l’idea che la scuola sia una forma di curiosità personale: saper osservare il mondo estraendone le differenze, sviluppando capacità critiche e di analisi della complessità.
Aula multimediale progettata da Giulio Ceppi nell’ambito di “Progetto Fare Scuola” promosso da Enel, Reggio Calabria, 2018
La scuola è un luogo tanto importante quanto diverso perché significa considerare categorie differenti: i nidi, le scuole dell’infanzia, le elementari, le medie, il liceo, l’università, le attività di formazione professionale; ciascuna di esse richiede spazi diversi con caratteristiche differenti a seconda della fascia d’età. Uno degli ultimi incarichi su cui ho lavorato è la Flos Light Academy: attività formativa interna mirata a far prendere coscienza della storia dell’azienda ed a ragionare sulle caratteristiche emergenti della luce. Quindi ci sono tante idee di scuola e diversi contesti in cui essa si articola, importante è che mantenga dinamicità e sia vissuta attivamente, mai come un’attività passiva di pura acquisizione.
“A pensar male del prossimo si fa peccato ma spesso si indovina” è una famosissima frase di Pio XI più conosciuta e citata, almeno in Italia, nella formula di Giulio Andreotti.
Di certo, è la base fondante di qualsiasi serio complottista!
Se c’era una cosa che da sempre metteva in crisi il complottista era la scarsa visibilità, la facilità con la quale poteva esser messo a tacere, l’impossibilità di far conoscere le sue teorie.
“Sì, però poi è arrivato internet”, vero, ma non sufficiente.
“E i social?”
Eccoci, questo è il punto, il social è l’abbattimento della tradizione orale, il superamento della parola scritta e l’esaltazione della condivisione.
Non è più un componimento francese che parla di mercato, vendita di mele e un ladruncolo, che diventa una conta popolare italiana, è il chiacchiericcio da bar al potere.
Allora per una volta voglio seguirlo, voglio dire e dare la mia verità, perché io, come tanti, la verità ce l’ho, non è un’ipotesi, un’opinione o una, figuriamoci, ricerca. Io non mi perdo nemmeno in voli lessico-pindarici che uniscono un audio del ’90, con un trafiletto del 2002 o un video segretissimo (che stava su YouTube!) del 2015, io so chi è il colpevole della realizzazione e diffusione del Covid-19.
Volete saperlo anche voi?
Rullo di tamburi?
Signore e signori, il colpevole è: l’UOMO.
“L’uomo? Quindi sei per il laboratorio, per i militari, per il è colpa degli U.S.A. no è colpa della Cina, no è colpa del Club Bilderberg, insomma il complotto?”
Ma non lo so.
“Ma come? Hai appena detto in pompa magna che sapevi chi era il colpevole?”
Vero, ma mica ho detto che sapevo cosa fosse successo!
Il problema vero è che in una relazione causa-effetto sembra che la via più semplice sia sempre l’ultima delle possibili possibilità.
Sicuramente ha importanza sapere come si sono svolti i fatti, ma di certo, vuoi che si riescano a scoprire prove inconfutabili che il Covid-19 sia stato prodotto in laboratorio ovvero sia la mutazione di un precedente virus avvenuta in natura, il tutto non può che ascriversi all’uomo.
Perché? Perché se la natura muta e velocemente nell’ultimo periodo, se dobbiamo assistere a stravolgimenti dovuti ai cambiamenti climatici, se gli Organismi Internazionali stan cercando di portarci a raggiungere degli obiettivi sostenibili per il 2030, ebbene c’è sempre e solo un minimo comune denominatore: l’uomo o, se preferite, la razza umana.
“Ma che cosa c’entra la semplicità?”
È semplice: soprattutto negli ultimi anni, gli stravolgimenti dovuti al cambiamento climatico sono alla portata di tutti. Non si è più costretti ad andare nello spazio per misurare il buco dell’ozono (che si sta richiudendo per la serie: si può fare!), ma basta osservare le mutazioni meteo ognuno a casa propria, rispetto un passato non troppo lontano e quindi a memoria d’uomo.
Tsunami, scioglimento dei ghiacciai, terremoti, desertificazione, inondazioni, migrazioni, guerre, tutte conseguenze dei cambiamenti climatici, tutte conseguenze dei medesimi fattori scatenanti e con un responsabile principale, immagino abbiate capito a chi mi riferisco.
Quindi, e per concludere, se l’uomo è in grado di far scomparire isole, sommergere coltivazioni, prosciugare pozzi, far estinguere suoi co-abitanti di questo meraviglioso pianeta, cosa può succedere a una proteina contenuta in un pipistrello che ha visto modificato anche solo di dieci metri il suo habitat e che al mercato mio padre comprò?
La Statale 9, conosciuta comunemente come via Emilia è stata spesso la protagonista della storia antica e recente del Italia. Fin dalla sua fondazione in epoca romana ha rappresentato un passaggio obbligato tra l’Europa continentale e l’Italia mediterranea.
Durante la Seconda Guerra Mondiale a poca distanza sorgeva la linea Gotica, quella linea sottile che divideva l’offensiva delle truppe tedesche dall’esercito degli alleati. Ma la via Emilia è anche stata spesso teatro di operazioni artistiche e culturali, per il fotografo Luigi Ghirri, fu un vero e proprio palcoscenico, la sua serie “Esplorazione sulla via Emilia” fu un grande successo che ancor oggi, nonostante siano passati oltre trent’anni dalla prima mostra, desta ancora interesse.
Nell’epoca contemporanea la Statale 9 ha assunto il ruolo indiscusso di maggior arteria di collegamento tra Nord e Sud Italia, insieme all’autostrada A1 e alle linee ferroviarie ad alta velocità.
L’Emilia Romagna viene tagliata da est a ovest dal tracciato che parte da Rimini e arriva fino a Piacenza, a nord la pianura padana e a sud la catena appenninica tosco emiliana. Una delle regioni più industrializzate e, insieme alla Lombardia, anche una delle più inquinate. Infatti gli scarichi industriali, le automobili e gli allevamenti intensivi sono i principali responsabili della scarsa qualità dell’aria che gli emiliani romagnoli respirano quotidianamente.
Ma mettiamo il caso che le auto si debbano fermare, le persone siano costrette a rimanere a casa, il lavoro, ove possibile, possa proseguire grazie allo smart working, le industrie siano obbligate a rispettare un periodo di blocco forzato, spegnendo i macchinari e così riducendo le emissioni nell’atmosfera di fumi nocivi. Succede che il cielo magicamente da grigio torna a risplendere di un celeste intenso, i prati vengono invasi da fiori, l’aria torna ad essere leggera e respirabile.
Questo scenario poteva risuonare utopico fino al 29 febbraio 2020, ma a causa della pandemia, in pochi giorni si è trasformato in realtà. Questo periodo verrà sì ricordato in modo negativo per aver portato sofferenza a tante persone che, a causa del coronavirus, hanno perso i loro cari, il lavoro o semplicemente le abitudini quotidiane, ma sicuramente dovrà far riflettere tutti.
Se guardiamo i dati, in Emilia Romagna, le PM 10 a Bologna, all’inizio dell’emergenza e quindi all’estensione della zona rossa in tutta Italia, erano pari a 50 µg/m3, un dato al limite della tolleranza, dopo solo alcuni giorni erano diminuite più della metà: 19 µg/m3. Con il passare del tempo, i dati riguardanti le PM 10 sono scese sensibilmente arrivando a 8, 9 µg/m3 a fine Aprile (dati ARPAE).
Nel contesto che ci stiamo apprestando a vivere, grazie a numerose segnalazioni, sta emergendo la necessità di studiare le possibili connessioni tra esposizione a PM e epidemia di Covid-19.
La comunità scientifica si sta interrogando e ha avviato una ricerca intitolata Pulvirus per studiare le conseguenza del lockdown sull’inquinamento atmosferico e sui gas serra e le interazioni fra polveri sottili e virus.
Da pochi giorni abbiamo superato il periodo nevralgico d’emergenza, siamo giunti alla fase 2. Le industrie hanno riaperto e con loro i fumi sono ripartiti, il lavoro da casa pian piano sta per essere abbandonato e così nuovamente migliaia di automobili si stanno per riversare sulle strade delle nostre città. I dati non sono incoraggianti, le PM 10 hanno iniziato nuovamente a risalire fino a 22 µg/m3 (dato del 6 maggio). Guardiamo indietro, pensiamo a ciò che questo periodo di blocco ha prodotto: la natura è tornata a splendere, il cielo di nuovo limpido e l’aria sicuramente più respirabile e allora perché non impegnarsi per salvaguardare tutto ciò. Impariamo a sfruttare appieno la tecnologia e la sua capacità di ridurre le distanze, permettendo a molti di lavorare in remoto.
Approfittiamo di ciò che siamo stati costretti a vivere. Acceleriamo il processo di trasformazione per portare il Mondo ad uno sviluppo sostenibile seguendo i 17 punti che l’Onu ha inserito nell’Agenda 2030. In particolare trasformiamo le città e le comunità, modifichiamo le nostre abitudini con l’obiettivo di ridurre gli sprechi e diminuire le fonti di inquinamento.
In pochi giorni, la via Emilia, da arteria stradale fondamentale per il traffico veicolare, è ritornata indietro nel tempo, quando le automobili non esistevano e quel tracciato era dedicato alla mobilità lenta. La strada si è trasformata in una larga pista ciclabile dove le biciclette, i monopattini e i pedoni si sono riappropriati dello spazio urbano che automobili e camion avevano, fino a pochi giorni prima, sottratto.
Per dare un futuro alla vita ogni singolo deve fare la sua parte, come sostiene Michelangelo Pistoletto 1 + 1 = 3, l’impegno di un singolo sommato a quello di un’altra persona fa molto più di una somma matematica, da valore al futuro di tutti.
Purtroppo per molti Paesi un sistema di governance obsoleto sta invece frenando lo sviluppo tecnologico.
Pertanto i Paesi lungimiranti stanno dando la priorità all’innovazione.
La quarta rivoluzione industriale sta cambiando varie strutture sociali. In Giappone, i risultati di questi cambiamenti sociali sono comunemente indicati come Società 5.0.
Siamo passati da una società di caccia e raccolta (Società 1.0) a una società agricola (Società 2.0), una società industriale (Società 3.0) e una società dell’informazione (Società 4.0), adesso ne sta nascendo una nuova società con l’Uomo al centro. I nuovi sistemi sono destinati a riunire il mondo cibernetico e il mondo fisico in modi sofisticati, guidando lo sviluppo economico e risolvendo le tensioni sociali.
La Società 5.0 viene gestita raccogliendo il vasto volume di informazioni utilizzate nel mondo fisico e trasferendole nel mondo cibernetico utilizzando tecnologie come i sensori. Questi big data vengono quindi analizzati nel cyberspazio e i risultati vengono applicati in varie forme alle nostre attività sociali nel mondo fisico.
Robot, auto a guida autonoma e altre tecnologie autonome consentono di superare problemi come il calo delle nascite e l’invecchiamento della popolazione, lo spopolamento delle aree rurali e la distribuzione diseguale della ricchezza. Si prevede che queste innovazioni sociali abbatteranno i muri esistenti tra le persone e costruiranno una società in cui le persone possono avere speranza, una in cui le persone di tutte le generazioni si rispettano, una in cui tutti possono vivere comodamente e prosperare.
Da una indagine della giapponese Toyo University (vedi https://kyodonewsprwire.jp/release/201911284112 ) che stima il grado di innovazione mediante cinque indicatori chiave : cooperazione internazionale, tendenze del mercato, innovazione tecnologica, intraprendenza e politiche pertinenti, vede l’Italia solo al 40 posto nel ranking mondiale.
Il mondo sta cambiando a velocità incredibile, nuove tecnologie si affacciano ogni giorno. Quindi il nostro Paese ha di fronte una sfida e una opportunità che non può e non deve perdere. Sfide che si possono vincere solo facendo leva sulle risorse professionali di figure preparate e qualificate con un background dinamico e aperto all’innovazione, ma anche in grado di guidare la transizione con lo sguardo verso una tecnologia davvero a servizio dell’Uomo ed una narrazione ed un linguaggio che sia rassicurante e al contempo inclusivo: la innovazione è qualcosa che coinvolge la società e la impresa in maniera trasversale, tutti ne devono fruire per lo sviluppo di nuovi modelli e best practices. Non vi è innovazione se non si ha una evoluzione profonda , ad ogni livello gerarchico, per avere la opportunità di sviluppare un mondo migliore nel lavoro e nei rapporti sociali.
Dobbiamo perseguire questo obiettivo, per noi e soprattutto per il futuro che vogliamo lasciare alle nuove generazioni, così come affermato dalla Agenda 2030 dell’ONU che nell’obiettivo otto propone una crescita economica e sostenibileche richiede alle società di creare condizioni che permettano alle persone di avere posti di lavoro di qualità, che stimolino le economie e al tempo stesso non danneggino l’ambiente. Inoltre, sono necessarie opportunità di lavoro e condizioni di lavoro dignitose per l’intera popolazione in età lavorativa.
Le parole che sento risuonare oggi sono “smartworking”, “spesa online”, “video su Netflix” , “ci vediamo su Skype” per trascorrere il tempo…
La scorsa sera le mie figlie guardavano un telefilm anni ‘70 (Pippi Calzelunghe..) su di un canale digitale, io e la mia compagna su due piattaforme diverse il discorso del presidente del Consiglio con lo smartphone.
Chi conosce le tecnologie correnti sperimenta appieno quanto il mondo digitale ci permetta di vivere, di fare la spesa, di vedere i propri cari e di continuare a lavorare senza muoversi da casa. Chi ha competenze digitali ha di fatto gli “anticorpi” che lo fanno “sopravvivere” all’isolamento. Lo stesso vale per le imprese, che se sono digitalizzate continuano ad essere “vive” anche con i corridoi vuoti.
Poi vi è una fascia della popolazione che per formazione ed età anagrafica non ha queste competenze e quindi il virus le colpisce due volte: per la loro fragilità intrinseca e per non poter attuare le strategie che indicavo in precedenza che possono difenderle dal contagio. Lo stesso vale per le imprese che non hanno investito in tecnologie.
La emergenza che stiamo vivendo ci insegna molto, dobbiamo capire come colmare questo “digital divide”. Non possiamo pensare che nel 2020 vi sia qualcuno che non sappia inviare un mail oppure avere una conoscenza basica di un PC e dell’utilizzo del web. Come paragone è come se fossimo all’inizio del secolo scorso e alcuni utilizzassero il telefono mentre altri si affidano al piccione viaggiatore.
Questa a mio avviso sarà una delle sfide del prossimo futuro: non lasciare indietro nessuno ma al contempo premiare chi ha capacità e competenza digitale perché garantisce continuità e competività al sistema Italia.
Saremo di fronte ad un orizzonte economico colmo di nubi: vinceremo solo se tutti faremo un “salto quantico “ non verso il futuro, ma su di un presente che muta a velocità vertiginose.
Tutto questo si inserisce nel concetto espresso dal punto nove dell’agenda ONU 2030, Infatti ritengo prioritario lo sviluppo infrastrutture di qualità, affidabili, sostenibili e resilienti atte a supportare lo sviluppo economico e il benessere degli individui, con particolare attenzione ad un accesso che sia equo e conveniente per tutti. Al contempo è necessario investire sia nella formazione per ridurre il “digital divide” che negli individui che sia in grado di guidare e gestire la trasformazione digitale di cittadini ed imprese.
Valerio Grassi – Innovation Manager certificato dal Ministero dello Sviluppo Economico / CEOAtlas Advanced Technologies
Non da tutti i rubinetti in ogni luogo del mondo esce acqua quando si aprono ma non perchè sono rotti. Vivere senz’acqua è la realtà quotidiana per un grande numero di persone ed è stato anche il tema di ricerca di un workshop intitolato NanoVision Design@2025 con gli studenti del Laboratorio di Sintesi Finale della laurea magistrale in Integrated Product magistrale preso la Scuola di Design del Politecnico di Milano coordinato da Giulio Ceppi, Emmanuele Villani e Irene Lia Schlacht. Il tema proposto esplorava e immaginava nuove prestazioni da sviluppare per il nostro corpo cercando di estenderne le potenzialità innanzitutto nel sostenere ed eventualmente nell’aumentare la capacità di adattamento in situazioni estreme, in particolare in assenza di acqua potabile.
Le risposte alle tante domande che ci siamo fatti nel corso del laboratorio ci hanno portato a cercare nelle tecnologie del’infinitamente piccolo e comprendono, come ipotesi di ricerca, lo sviluppo di device intra/extracorporei, sviluppati sulla base di nanotecnologie oggi disponibili, di cui dotarsi per vivere su questa terra nel prossimo futuro del 2025.
L’obiettivo é mostrare come tematiche legate a sviluppo di tecnologie innovative per affrontare problemi reali, come l’assenza di acqua potabile, possano essere fattori chiave per formare le vision dei designer del futuro.
Alcuni anni fa mi raccontarono di un progetto a Niamey, la capitale del Niger. Si trattava di rendere sicuro dal punto di vista edilizio uno dei centri economici più importanti del paese: i mercati generali, un agglomerato di più di 2000 attività commerciali addensate in poco più di 50mila mq. Progettare per questa realtà è impegnativo, ma soprattutto è difficile costruire perchè l’acqua è un bene prezioso e molto scarso in Niger, in compenso ci sono soprattutto sabbia e sole, oltre che uranio. Il progetto venne abbandonato, ma mi restò in mente l’immagine di questo luogo e soprattutto di quanto sia importante l’acqua per la nostra vita. Può sembrare un’ovvia banalità ma non lo è per Richard P.Feynmann che nel 1959 presenta all’American Physical Society un intervento dal titolo “There’s Plenty of Room at the Bottom”. E’ la data di nascita ufficiale delle nanotecnologie. Immaginarsi un mondo che concentri l’attenzione sul “molto piccolo” è qualcosa di straordinariamente innovativo, e ancora oggi viene percepito come tale, nonostante siano passati quasi sessant’anni. L’aspirazione di questa ricerca è di utilizzare la stessa flessibilità e morbidezza scientifica di Feynmann per cercare di connettere le nanotecnologie con la mancanza d’acqua.
Nella mia infanzia mi colpiva molto il fatto che i marinai di un tempo affrontassero le traversate oceaniche ammalandosi per l’impossibilità di conservare l’acqua. Quindi, pensavo, l’acqua non si può conservare, il chè era abbastanza curioso per una nave.
L’obiettivo è stato di sviluppare una “vision” che permettesse di immaginare in un futuro non lontano l’utilizzo di nanotecnologie per costruire manufatti e attrezzature da utilizzare e da indossare per sopravvivere nel deserto. Non un deserto qualunque ma un ambiente estremo come il deserto del Sahara, nella fascia che comprende parte di Mauritania, Mali, Niger, Ciad e Sudan comprende la necessità di vivere senz’acqua.
Viene da pensare se questi temi sono ambito del design. La risposta è affermativa e senz’altro farà parte del dibattito che affronteremo in futuro, sulla ragion d’essere di un design che cerca di trovare consistenza sia nell’indagine teorica sia nella progettazione di manufatti, utilizzando quanto si ha a propria disposizione come persone, materiali, tecnologie e risorse.
La ricerca ha preso il via da questi assunti e le ipotesi di lavoro hanno seguito diverse vie, tutte connesse dall’uso delle nanotecnologie, o più precisamente dall’utilizzo di alcune proprietà delle nanotecnologie per orientare i progetti degli studenti, sfruttandone le qualità per raggiungere l’obiettivo di avere a disposizione dell’acqua, potabile.
La maggior parte delle ricerche si sono orientate verso l’utilizzo di una proprietà dei nanotubi di respingere l’acqua. Questa caratteristica è stata applicata da uno studente per progettare frutti d’acqua che si possono raccogliere da alberi artificiali che a loro volta raccolgono l’acqua dall’umidità dell’aria. Disseminati lungo la città e gestiti con applicazioni appropriate possono dare sollievo a quanti si avventurino nelle giungle urbane. Analogo filone di un altra ipotesi di progetto sulle torri che racchiudono tutte le tecnologie per imbrigliare ogni minima goccia d’acqua disponibile e renderla disponibile a terra per irrigare terreni disperatamente aridi. L’ipotesi si spingeva fino a definire una vera e propria catena di “oasi di servizio” disseminate lungo i percorsi abitualmente frequentati nel deserto.
Un altro filone di ricerca ha dato spazio alle situazioni di emergenza sviluppando droni per aiutare le persone in difficoltà nel deserto (delle specie di borracce volanti) e braccialetti salvavita.
Tute e maschere da indossare per filtrare e recuperare acqua sono state oggetto della ricerca di chi ha costruito soluzioni che rendessero l’utente il più possibile indipendente e autonomo da quanti sono alla ricerca di avventure in ambienti estremi.
Una soluzione apparentemente più convenzionale ha progettato biciclette costruite con tecnologie siliceo-solari, realizzabili con i soli mezzi a disposizione in un deserto.
Gli esiti di questa ricerca hanno portato alla definizione di progetti di ibridazione di tecnologie, vision e integrated product design e ci hanno permesso di focalizzare alcuni aspetti su cui organizzare una riflessione progettuale per il futuro.
Inaspettatamente la possibilità di fare innovazione, in una contemporaneità in cui l’apparenza sembra non offrire alcuna possibilità e spazio, si offrono ambiti di ricerca inaspettati e ricchi di prospettive risiede ancora nella capacità di utilizzare un approccio cross-technology, orientato dal design del processo e del prodotto e con ampi margini di innovazione e miglioramenti.